Sono cinque giorni che navigo, sono solo e comincio a sentire la stanchezza. Ci sono due metri e mezzo di onda e ora che si sale verso l’equatore ogni tanto mi trovo pure a combattere con acquazzoni violenti che mi costringono a manovrare. Mi chiedo se alla fine ne sarà valsa la pena, Suwarrow è fuori dalle rotte ed è per questo che chi attraversa il Pacifico, dopo la Polinesia Francese si dirige direttamente sulle Tonga e Fiiji passando dalle Cook meridionali. Sono tutte tappe “brevi” di 350 miglia al massimo, mentre per andare a Suwarrow da Bora Bora, bisogna fare quasi 700 miglia in direzione nordovest e poi, per andare alle Tonga, bisogna riscendere per altre 700 miglia in direzione sudovest. Una follia insomma, e tutto perché Moitessier ne parlava come di un posto magico. Devo dire che anche il libro di Tom Neale, che avevo già letto e che mi sto rileggendo ora in navigazione, ne parla come un paradiso terrestre ma sono tutte cose scritte quarant'anni fa, magari ora è tutto cambiato. Cosa ci può essere di diverso dai tanti atolli delle Tuamotu che ho visto finora? Perché mai uno dovrebbe fare tutte queste miglia se non per una curiosità che scaturisce dalle letture? Mi sento come se stessi per andare a visitare un santuario, ma spesso i santuari sono una delusione e magari quando arrivo ci trovo una costruzione moderna, un bar sulla spiaggia e centinaia di barche accorse per rendere omaggio ad un pazzo eremita, che ha deciso di vivere molti anni della sua vita da solo in quest’isola deserta, e al suo amico navigatore che di tanto in tanto veniva qui a cercare se stesso.
Papayaga noncurante dei miei stati d’animo continua a macinare miglia come se nulla fosse e io me la guardo grato, anzi, tolgo la mano di terzaroli perché se arriviamo troppo tardi mi tocca pure aspettare fuori, alla cappa, fino al giorno dopo. Per fortuna il vento ci assiste e alle due del pomeriggio siamo davanti alla passe. Come al solito si vedono solo onde che frangono, bisogna avere fiducia nelle carte e prima o poi il passaggio diventerà chiaro. Ci siamo, non è difficile, il canale è largo circa 400 metri e c’è solo una secca verso la fine, ma è ben visibile.
Appena entrato nella laguna accosto verso l’isolotto di Anchorage e mi sale un emozione pazzesca… “Papayaga, lo sai dove siamo arrivati?”.
Vedo subito il molo che aveva sistemato Tom Neale e alla fonda ci sono solo tre barche. Anchorage è tutto un ciuffo di palme con una sottile linea di sabbia bianca intorno. Devo ammettere che è veramente bella, ma forse è solo suggestione, infondo sono palme da cocco e sabbia bianca, come tutti gli altri atolli.
Prima del tramonto però, scendo a terra e sono assalito da una improvvisa sensazione di pace, sembra di essere in un monastero tibetano. La prima cosa che noto è che in questa parte della spiaggia, contrariamente a tutti gli atolli visti finora, non c’è assolutamente vento, il muro di vegetazione che ho alle spalle è talmente fitto che trattiene gli alisei e il rumore del mare che frange sulla barriera si sente solo in lontananza. La calma e il silenzio, rotto solo da timide ondine sulla battigia, mi ricorda certe sere di luglio alle Eolie. Non ci sono nemmeno zanzare… questo posto è così lontano da tutto che finora nessuna barca ha trasportato questi indesiderati ospiti. Sopra di me golette bianche a due a due giocano a rincorrersi, o a me piace pensare che stiano amoreggiando. Rondini di mare sorvegliano dall’alto mentre un enorme granchio del cocco interrompe il suo pasto per guardarmi. Mi avvio verso un sentiero e dalla boscaglia sale un odore di legno in decomposizione che mi ricorda le conifere delle Dolomiti, dopo pochi metri mi trovo davanti a quella che fu la capanna di Tom Neale. Sono passati più di quarant’anni ormai e non è certo in ottimo stato ma è meglio così, guardando qualche attrezzo arrugginito mi piace pensare che in quello stesso posto il vecchio Neozelandese compiva i suoi gesti quotidiani alla ricerca della sua pace. In una stanza della capanna ora c’è una “libreria” dove i navigatori che passano da qui si scambiano libri con la regola del “prendi uno lasci uno”. Cerco qualche libro in italiano ma non ce ne sono.
Un sentiero mi porta fino al lato sopravento dell’isola e qui è tutto uno scenario diverso. Palme piegate dal vento, schiuma che corre lungo i coralli affioranti, squali che approfittano dell’alta marea per venire a fare razzia di pesci intrappolati… ce ne saranno un centinaio in pochi metri quadrati. Faccio il giro dell’isola lungo la spiaggia e finalmente capisco quelle immagini dei Polinesiani che pescano col Patìa: mi sembrava impossibile che dalla riva uno possa lanciare un bastone e prendere un pesce, invece no, ce ne sono così tanti che, perfino io, se lanciassi un arpione a casaccio ne prenderei due ad ogni colpo.
La mattina seguente di buonora mi butto in acqua con la maschera. Ci sono i soliti squali pinna nera che accorrono incuriositi ma tra loro, ogni tanto, si vede uno squalo grigio decisamente più grande . Forse bisognerà fare un po’ di attenzione! Mi giro verso la barca e una grossa macchia nera mi viene incontro… dopo l’iniziale spavento realizzo che è una Manta gigante con la tipica faccia biforcuta. Non è spaventata e anche se non avrei voluto disturbarla, non ho resistito alla tentazione di immergermi per nuotare al suo fianco. La manta non solo non scappa, ma ogni volta che riemergo per prendere fiato sembra che si fermi ad aspettare per poi continuare il gioco.
Forse è proprio questo il punto: Suwarrow è a più di cinquecento miglia dal primo essere umano, e per questa ragione è ancora come l’aveva ideato il padre eterno, o come lo si vuole chiamare. In questo atollo gli equilibri non sono stati ancora modificati dall’uomo, e per questa ragione, è il paradiso terrestre.
Si, questo è proprio un santuario, ma non a due uomini che ne avevano compreso il valore, bensì alla bellezza e sacralità di questa natura perfetta, e per fortuna che si trova a settecento miglia da Bora Bora.
Al tramonto, sulla spiaggia, mi fisso a guardare la radice di una noce di cocco che sta germogliando, sembra che cerchi disperatamente acqua anche se è caduta tra i coralli secchi. E’ una lotta contro il tempo e mentre lei cerca, la piantina sfrutta l’acqua contenuta all'interno della noce per vivere. Di fronte a tanta perfezione ho la sensazione che la natura comunque vincerà, spero solo che possa farlo prima che l’uomo si sia autoeliminato con la sua stupidità. Alcune foto
